13 Agosto

Sezione: non-accadde/

“La macchina della propaganda non ha la marcia indietro.” (DE)


13 agosto
“Quell’anno la festa di Santa Chiara (onomastico di Claire de Beaulieu, moglie di Philippe Derblay, il “Padrone delle ferriere”) cadeva di domenica”. La festa di Santa Chiara era a quei tempi il 12 agosto, e quindi l’anno era il 1877. Il lunedì successivo, 13 agosto, il romanzo giunge alla sua scena risolutiva, cioè un duello che, dopo un romanzo abbastanza esagerato, finisce insperabilmente nel modo più logico. Prima di leggere questo libro pensavo che si trattasse dello studio di carattere di un grande capitano d’industria, della sua ascesa nella scala sociale partendo dal nulla, e magari dei suoi rapporti con la finanza, la politica, il potere, e poi la moglie scialba e infelice, il figlio inetto, la figlia ribelle che fugge con un pittore e via dicendo. Nulla di tutto questo. Il “Padrone delle ferriere”, di Georges Ohnet, è una storia d’amore tra personaggi dalla psicologia abbastanza elementare. Cambiando pochissimi dettagli nel romanzo, il protagonista potrebbe essere un banchiere, o un politico, o un militare di carriera, o un piantatore di zucchero nella Martinica (Ohnet, però, preferiva gli ingegneri). Il romanzo è unicamente una questione tra l’alta borghesia, in cui risiede il denaro, e quindi è la forza viva del paese, e la corrotta, decadente, impoverita nobiltà, che però esercita sui borghesi arricchiti un fascino irresistibile. Tutta questione d’un apostrofo. Il romanzo non ci sarebbe se Philippe Derblay si chiamasse Philippe d’Erblay. Gli operai e lavoratori sono trattati alla meglio con paternalismo, e sono ritratti in goffe foto di gruppo, con il cappello in mano ed occhi adoranti, per lo più umidi di lacrime di commozione. Il racconto è nello stile del peggior melodramma borghese, ma si legge bene (e ai suoi tempi andò a ruba). Questo irritò furiosamente i critici, che probabilmente lo leggevano anche loro di nascosto. I romanzi e drammi di Ohnet si vendevano, quindi aveva ragione anche lui.
(“Le maître de forges”, 1882, 400 pagine brevi – poi volto in dramma di 5 atti nel 1883)

(Anno imprecisato a cavallo tra il 1800 e il 1900): “… e il 13 agosto eccomi in viaggio [per Parigi], pensando:”Ne approfitterò per andare a trovare mia zia Eglantina, che abita nel Boulevard del Palazzo davanti al Palazzo di Giustizia”…”, unica data in un monologo di Georges Feydeau. Si trova ne “Il signore condannato a morte”. Feydeau scrisse essenzialmente vaudevilles o farse e ventidue monologhi, per lo più umoristici, di cui dodici in versi. Ce ne sono di varia qualità. In genere quelli in versi sono i migliori (per esempio “Patte en l’air - La zampa alzata” o “Le colis - Il bagaglio”, che sospetto abbia ispirato Pirandello per una delle sue “Novelle per un anno”). Altri sono solo una serie di battute da avanspettacolo. Il protagonista è generalmente un ingenuo che descrive un mondo che non comprende. Tale è il caso del Condannato a Morte, monologo surreale. E’ triste pensare che questo “ingegnere della risata”, che scriveva intrecci irresistibili (quali l’immortale “Sarto per signore”) descrivendo allegramente il frivolo mondo parigino , sia morto pazzo, a cinquantotto anni.
(“Les Monologues – Un Monsieur qui est condamné a mort”, (pre?)1899, 9 pagine. I 22 monologhi, pubblicati in tempi diversi, constano di 21000 parole).

1960, sabato. La Società Generale del Credito Istituzionale distribuisce i premi nel sito dell’ex Champ de Mars a Parigi. L’ultimo, meno ambito e quasi derisorio premio è di poesia e lo riceve il sedicenne Michel Dufrenoy. È l’inizio del Capo I del “romanzo perduto” di Giulio Verne, “Parigi nel XX secolo”, scritto nel 1863, pubblicato nel 1994. Verne aveva 35 anni quando lo scrisse, ed il suo editore, Hetzel, fu assai poco convinto dall’idea di pubblicare questo romanzo, che - secondo lui - avrebbe potuto rovinare la carriera dello scrittore, che a quel tempo aveva scritto cinque racconti. Quindi incoraggiò l’autore a ritardare la pubblicazione per una ventina d’anni (furono poi centotrentuno). Sembra quasi che Hetzel volesse specializzare la sua scuderia: Victor Hugo per le poesie ed i grandi romanzi romantici, George Sand per i romanzi sociali, Jules Verne per l’ottimismica fede nel progresso. Verne divenne così il profeta della tecnologia. Leggendo “Parigi nel XX secolo” si capisce che Verne era un profeta assai poco convinto. Quando poi Verne fu ricco e affermato (e Hetzel morì), tornò al romanzo vagamente ecologico e sostanzialmente pessimista sull’avvenire tecnologico dell’umanità. Dopo di averci dato la visione del futuro in parte indovinata e in parte no, con auto a benzina, metro sopraelevato, computers e via dicendo, il libro “Parigi nel XX secolo” termina con una silenziosa visione di Parigi in una sera d’inverno, vista da un cimitero su una collina, il Père Lachaise. È una Parigi piena di luci, ma gelida, su cui troneggia una Torre Eiffel di 100 m, che nel 1863 non c’era ancora.
(“Paris au XXeme Siecle”, 1994, 222 pagine)