Sardonicus dixit:”Ci agitiamo sempre più in fretta per dimenticare che ci agitiamo invano.”
28 dicembre
1879 domenica, crolla il ponte sul fiume Tay, presso Dundee, disastro su cui scrisse il Poeta William Topaz McGonagall (vedi 1 dicembre). Incidentalmente, McGonagall scrive che era l’ultimo “Sabbath day” del 1879. Sabbath, infatti, in Inglese è bivalente, cioè vale tanto per il sabato quanto per la domenica. La locomotiva fu recuperata e col nomignolo di “The Diver” (la tuffatrice), fu rimessa in servizio.
(“The Tay Bridge Disaster”, 1880 (probabilmente), 59 versi, forse la poesia più nota del poeta).
Sullo stesso soggetto Theodor Fontane scrisse una bella ballata, in cui le tre streghe del Macbeth trovarono una nuova parte. (“Il ponte sul Tay - Die Bruecke am Tay”, 68 versi, 1880).
La ballata di Fontane è oggi praticamente dimenticata rispetto a quella di McGonagall, il che dice qualcosa, anche se non so bene cosa.
1803, mercoledì. Ultima data dell’ultimo canto (“nona epoca”) di “Jocelyn”, di Alphonse Lamartine. Il poema, in forma di diario, a parte il prologo e i due epiloghi, si svolge in Savoia fra il 1 marzo 1786 (prima epoca), e il 28 dicembre 1803. Il curato protagonista morirà però nel giugno successivo. Lo spunto della storia sarebbe stato preso dalle vere vicende dell’abate Dumont, parroco di Bussières, vicino a Milly, casa di campagna di Lamartine. “Jocelyn” doveva essere un episodio di una grandiosa epopea paragonabile alla Divina Commedia, progetto ambizioso di Lamartine, concepito in Italia e rimasto (fortunatamente?) incompiuto. Il soggetto avrebbe dovuto essere “l’umanità”, che si evolve verso i suoi obiettivi sulle misteriose vie tracciate da Dio, sorretta da una religione che ha superato il Cristianesimo. La mia impressione è che i grandi romantici tendessero ad essere eccessivi nei sentimenti, sovrabbondanti nelle immagini che devono muovere i sentimenti e prolissi nell’espressione. Tuttavia, nel mezzo di una tiritera di cento versi che scorrono facili come l’acqua su una foca, senza dirci nulla, ci si trova d’improvviso di fronte a un verso, un’immagine, un concetto che non potrebbe essere espresso meglio e che arricchisce chi lo legge. Chi leggerà Jocelyn farà parte di una schiera assai piccola di lettori, ma fra le altre cose troverà motivo per amar di più la montagna, che in Lamartine è un po’ di maniera, ma pur sempre bella.
(“Jocelyn, un episode, journal trouvé chez un curé de village”, 1836; poema a rime baciate, con un prologo, nove epoche ed un epilogo, 8000 versi).
Non è l’unico “diario di un curato di campagna” della letteratura francese. Confesso che quello di Georges Bernanos mi pare meno nebuloso e nell’insieme assai superiore a questo. Non è in versi eterei, ma scava profondo. Ne fu tratto un bel film.
(“Journal d’un curé de campagne”, 1936, 82 pagine).