1 Maggio

Sezione: non-accadde/

Sardonicus et DE dixerunt : “Anche la testardaggine può nobilitare un comportamento, purché venga battezzata forza di carattere”.


1 maggio

1467, venerdì. In questa data Poliphilus firma il suo libro, la “Hypnerotomachia Poliphili”, “Combattimento d’amore di Polifilo in sogno”, alquanto frustrante romanzo allegorico di ispirazione pagana. La firma intera dell’autore, alla fine del libro, foglio - vedi caso - 467, è “Il povero Polifilo, mentre è stretto dai lacci dell’amore di Polia, in Tarvisio (in realtà Treviso), Calendimaggio 1467”. Bellissimo libro, non necessariamente da leggere, perché, anche con la migliore buona volontà, non se ne capisce molto, ma da guardare, per la bella stampa e le belle incisioni (quasi duecento) – belle, anche se disegnare cerchi in prospettiva non era evidentemente il forte dell’incisore. Notevole è il fatto che alcuni gruppi di incisioni siano come fotogrammi successivi di un breve filmato. La lingua, artificialmente complicata, è un misto di latino ed italiano con vari neologismi di origine latina e greca e altro. Tuttavia, la presenza nelle illustrazioni di geroglifici semi-fasulli e comunque di significato evidentemente ignoto allo scrittore è ciò che mi fa dubitare se effettivamente valga la pena fare uno sforzo per comprendere il libro. Questo incunabolo era un tempo inavvicinabile per la sua rarità, ma ora ne esistono ottime riproduzioni gratuitamente accessibili su Internet, e tanto basti. Come il solito, visto che è un testo astruso, legioni di studiosi cercano di capire il perché di un simile sforzo tipografico per non dire nulla. Finora, comunque, non si è venuti a capo dell’enigma, se di un enigma si tratta. Le maiuscole istoriate con cui iniziano i vari capitoli, lette di seguito, sono: POLIAMFRATERFRANCISCUSCOLUMNAPERAMAVIT, cioè “Il frate (o fratello?) Francesco Colonna amò in sommo grado Polia”. Con questo sembra identificato l’autore, ma, secondo molti, così sarebbe troppo facile.
(“Hypnerotomachia Poliphili, ubi humana omnia non nisi somnium esse docet. Atque obiter plurima scitu sane quam digna commemorat – Combattimento d’amore di Polifilo in sogno, dove si insegna che tutto ciò che è umano non è altro che sogno. E fra l’altro vi si menzionano moltissime cose degne di esser conosciute”, stampato da Aldo Manuzio nel 1499, 467 pagine).
Per saperne più del necessario i lettori possono vedere le pagine 182 e seguenti del volume II della “Biblioteca dell’Eloquenza Italiana” di Giusto Fontanini, con le acide annotazioni di Apostolo Zeno (Parma 1804).
Se poi uno vuole dilettarsi con un libro ancora più strambo, può cimentarsi con il “manoscritto di Voynich”, di cui la mancanza di spazio mi impedisce di dare un riassunto. Ma in rete si trova a suo riguardo tutto quello che si vuole…o quasi.

1650 (mercoledì?). Contemplando un ingenuo quadro all’albergo “La stella d’oro”, a Zurigo, che rappresenta una felice coppia e fa da sfondo agli stemmi dei due sposi, che si sposarono appunto il 1 maggio 1650, Heinrich Lee e Judith cenano insieme contenti, nell’ultima pagina della seconda edizione (notare bene) del romanzo semi-autobiografico “Enrico il verde”, dello svizzero Gottfried Keller. Verdi erano gli abiti del bambino Enrico, verde è il “cammino dei ricordi”, ultime parole della grande opera. Ma anche verde era l’erba sulla tomba di Enrico, con cui si chiudeva la prima edizione del romanzo, che descriveva indubbiamente un universo parallelo. In ogni caso Enrico è simpatico perché è sempre verde, sempre immaturo.
Il romanzo è uno dei tre maggiori “romanzi di formazione” (si fa per dire, perché Enrico non si forma mai) tedeschi, con il “Guglielmo Meister “di Goethe e “l’Estate di San Martino” di Adalbert Stifter, ed è classificato come una delle opere fondamentali della letteratura tedesca. Nonostante questo tremendo giudizio, è un bel romanzo, scritto in modo avvincente, e ricco di riflessioni profonde, ma in quantità sopportabile. Una sensazione curiosa pervade tutto, che la Svizzera sia pur sempre come una grande famiglia, anche se Enrico torna in patria proprio durante una delle guerre di religione di casa sua (1847-48).
(“Der gruene Heinrich”, prima edizione pubblicata a partire dal 1854, per un totale di circa 1700 pagine; seconda edizione 1879-1880) Keller non ama le date, e non so come gliene scappi una proprio all’ultima pagina del romanzo. Non ignora soltanto gli anni e i giorni, ma anche i mesi, il che è più raro. Invece segue con una certa cura il succedersi delle stagioni.

1727, giovedì. Morte a Parigi del Diacono Paris (François de Paris), fondatore della setta dei Convulsionari, ricordata da Jean-Baptiste Boyer d’Argens nelle sue “Lettere cinesi” (lettera X, libro I). Le “Lettere cinesi” sono tra i prodotti esemplari di questa epistolografia fittizia, frequente da metà Seicento al primo Ottocento, in cui un uomo colto di un’altra nazione esprime “ingenui” giudizi sulla cultura occidentale. D’Argens è razionalista, anti-cristiano, anti-gesuita, ma è uno dei pochi che comprenda lo sforzo fatto dalla Compagnia nella questione dei riti cinesi, come si vede dalla curiosa introduzione, la “Lettera ai Mani di Confucio”. È anti-taoista e anti-zoroastriano. Disprezza anche il Buddhismo e il Buddha (che cita col nome cinesizzato di Fo). Idealizza i Cinesi e Confucio. Si entusiasma dinanzi alla storia dell’“Orfanello della Cina”, che ha appreso da relazioni dei Gesuiti. Per questa si veda il libro XXXIII dello “Shiji” di Sima Qian (vedi 10 settembre), oppure il commento ai libri confuciani “Primavera e Autunno” (VIII.8.6), del Nobile Zuo (vedi 14 febbraio), che danno due versioni diverse.
Sorpresa: d’Argens è anche abbastanza anti-Newtoniano. Bisogna capirlo, non giudicava Newton solo sulla base della fisica e della matematica, in cui Newton era un genio indiscusso, ma anche sulla base delle sue assai più voluminose altre opere, in alchimia ed esegesi biblica, che non ne accrebbero la fama né negli ambienti religiosi né in quelli increduli. E’ del resto difficile capire quale progetto Newton seguisse scrivendo tanto di religione e studiandosi al tempo stesso di non chiarire quale fosse la sua intima fede (rifiutò i sacramenti Anglicani sul letto di morte).
Leggere in caso di necessità.
(“Lettres chinoises - ou correspondance philosophique, historique et critique etc.”, 1739-42, sei volumi)

(vecchio stile, probabilmente lunedì), ha inizio il romanzo “Oblomov” di Ivan Goncarov. Vedi 13 maggio.
Nelle prime 100 e passa pagine Il’ja Il’jc Oblomov, in veste da camera, praticamente non lascia il divano della sua disordinata camera da letto, per una sua ammirevole e quasi eroica, fatalistica pigrizia, a cui ha dato il suo nome - l’oblomovismo. Il sogno - anzi, i sogni - di Oblomov, Parte I, Capo 5, in una quarantina di pagine, costituiscono un episodio quasi a sé, che non manca di un suo fascino particolare. Raccomando di non perdere almeno il racconto dell’arrivo di una lettera ad Oblomovka, come antidoto a questi tempi di frenesia di e-mail, telefoni cellulari, sms e chi più ne ha più ne metta.
(“Oblomov”, 1859, 443 pagine.)

1885, venerdì, nasce Kimball O’Hara, Kim, che emise il suo primo vagito quando si verificò la prima scossa del grande terremoto di Shrinagar. Kim è il protagonista dell’omonimo romanzo di Rudyard Kipling, che a parer mio non è un romanzo per ragazzi. C’è indubbiamente qualcosa di più. Le date però non quadrano perché il terremoto in realtà fu il 30 maggio, ma quandoque bonus dormitat Homerus. Le vicende del romanzo hanno inizio probabilmente nel 1898, quando era in piena operazione “The Great Game - il grande gioco”. Che cosa sia questo “grande gioco” lo scoprirà il lettore leggendosi il libro.
(“Kim”, 1900 - a puntate, 600 kbyte, circa 250 pagine).

Data dell’intermezzo epico del secondo atto della “Commedia dei maggiolini” di Joseph Viktor Widmann. L’idillio di due teen-agers, Sabino e Gertrude, simpatico e teneramente raccontato, interrompe brevemente il corso della tragedia. Vedi 12 agosto.