Sardonicus dixit: “Esigiamo che ci dicano la verità le stesse persone che accusiamo di non saperla”.
21 marzo
(Equinozio).
1889, Giovedì. Sappiamo che era il 1889, che era il mese di marzo, che era un giovedì, che c’era già da alcuni giorni un bel chiarore lunare (la luna piena fu il 17 del mese). Non si può sbagliare più di tanto.
Facevo quarta elementare ed avevo nove anni. Il nostro maestro, nella vecchia scuola “Federigo Sclopis” (dove aveva traslocato la Sezione Baretti, scuola di Enrico Bottini – vedi 17 e 26 ottobre) doveva assentarsi per qualche tempo, e diede a ciascuno di noi un libro della bibliotechina di classe da leggere. A me toccò un’antologia rilegata in cartone blu a buon mercato. Non immaginavo che stesse per balzarne fuori un fedele amico che mi avrebbe accompagnato per tutta la vita, come simbolo di tutto ciò che può esserci di bello e di nobile e di ammirevole nell’animo umano. Il brano che lessi era intitolato “I ragazzi giocano ai soldati”. I nomi dei personaggi erano strani, non italiani. Il brano, un po’ arrangiato perché era evidentemente tratto da un libro, incominciava con una riunione di una banda di ragazzi in camicia rossa sotto un grande albero nell’Orto Botanico di una città ignota. Fra loro c’era anche Geréb, che stava preparando il tradimento dei suoi amici, appartenenti ad un’altra banda. Disse: In tutta la squadra non ce n’è uno che sia veramente coraggioso… Una voce squillante l’interruppe: - Sì che ce n’è!. Poi qualcuno scese dal’albero: “…un ragazzino dal ciuffo biondo saltò a terra, si scosse di dosso qualche foglia secca che gli era restata appiccicata al vestito, si raddrizzò e si mise a fissare imperturbabile i nemici ammutoliti e sconcertati dalla sua apparizione.
Gereb impallidì: - Nemecsek!.
Ecco, era arrivato nella mia vita Nemecsek, strano nome che non sapevo neppure pronunciare (per completezza, si pronuncia Némecek). Ci misi più di un anno, a trovare il libro da cui era stato tratto quel racconto, basandomi sui pochi indizi che ricordavo. Ma ci arrivai, come arrivai, sessant’anni più tardi ad individuare la data di quell’episodio. Il libro era “I ragazzi della Via Pál”, di Ferenc Molnar, o meglio, Molnar Ferenc, forse il più noto libro della letteratura ungherese, anche se destinato principalmente ai ragazzi. Ho letto che è stato recentemente interpretato come “mordente satira anti-militarista”. Chi ha scritto questo non deve aver mai fatto parte di una banda di ragazzi dagli undici ai quattordici anni, anzi, non deve neanche sapere cosa sia. Ad ogni modo non saprei neanche se consigliarne la lettura ai ragazzi di oggi: Nemecsek viveva in tempi simili a quelli in cui fui bambino io, in cui i ragazzini (unicamente maschi) vivevano in una sorta di loro mondo parallelo a quello degli adulti, da cui questi ultimi, peraltro rispettati, erano esclusi per quanto possibile, come animali di un’altra specie. E, particolare malinconico, in quella lontana città dalla lingua strana, che era Budapest (tanto simile a Torino), i ragazzi studiavano latino! No, chi non lo ha ancora letto lasci perdere quel libro. Non è lettura per lui. E’ troppo tardi. Come direbbe Don Abbondio, è tardi in tutte le maniere.
(“A Pál utcai fiuk”, pubblicato a puntate dal 1906, come libro nel 1907; 112 pagine). La via Pál esiste ed ha ancora quel nome. Il nome Pál viene sovente trascritto in italiano come Paal, perché la á ungherese è lunga. Il luogo del conteso terreno dei giochi (il “grund”) era più o meno all’angolo con la via Maria, tuttora esistente, sul lato nord (dei numeri pari). Dal romanzo si desume che l’ingresso corrispondeva all’attuale via Pál 6. La scuola frequentata da quei ragazzi era ed è tuttora in via Prater 11. Ai due lati dell’ingresso c’è dal 2007 un realistico gruppo di cinque ragazzi in bronzo che racconta una scena del libro e che evidentemente nessuno ha ancora (2014) pensato a imbrattare. Nemecsek abitava non lontano, al numero 3 di via Rakoz, ora via Hogyes Endre, insigne fisiologo ungherese. Proprio al numero 3 c’è oggi un tempio della chiesa unitaria. Il suo grande amico Boka abitava nella parallela via Kinizsi.
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“Nacqui nell’Equinozio” (che era anche venerdì santo), afferma nell’Introduzione Altazor, protagonista del Poema in prosa/poesia “Altazor”, di Vicente Huidobro. Un venerdì santo il 21 marzo si verificò solo nel 1913 (negli anni tra il 1875 ed il 2000).
Altazor, come dice il sottotitolo, sta scendendo in paracadute “di sogno in sogno”. Non si può non apprezzare il surrealismo dei seguenti versi, che mi hanno irresistibilmente invogliato a continuare la lettura: “Il primo giorno incontrai un uccello sconosciuto che mi disse:”Se fossi un dromedario non avrei sete. Che ora è?”.
(“Altazor - el viaje en paracaidas”, 1919, introduzione e VII canti).