Sardonicus dixit: “Il successo degli altri è sempre tanto più immeritato quanto più è meritato”.
29 marzo
1536, mercoledì. François Bonivard, il “Prigioniero di Chillon”, castello sul lago di Ginevra, viene liberato dai Ginevrini. Si era opposto al Duca Carlo III di Savoia, che voleva aggiungere Ginevra ai propri domini, cosa che i Savoia tentarono più volte senza mai riuscire. Bonivard fu catturato a tradimento il giorno dell’Ascensione del 1530, 26 maggio. George Gordon Byron visitò il castello nel 1816 e restò impressionato quando gli mostrarono le impronte lasciate sul pavimento di pietra da Bonivard, che per quattro anni si era aggirato nel suo carcere, posto sotto il livello del lago. Byron pertanto ritenne opportuno incidere il proprio nome sulla parete del carcere. Aveva un po’ la vocazione di vandalo, ed infatti probabilmente incise il suo nome anche sul tempio del Capo Sounion (ma non fu esattamente l’unico a farlo). Però, ciò che gli altri vandali non erano in grado di fare, scrisse anche un sonetto e quindi il poemetto di 392 versi, “Il prigioniero di Chillon”, che termina appunto con la liberazione del medesimo. Il poemetto ha tutti i pregi e difetti dei poemi romantici: bei versi, occasionalmente altisonanti e ridondanti, belle immagini, talune gemme di poesia. Il maggior difetto, a mio parere, è il solito tentativo di “migliorare” la storia per renderla più drammatica. In questo poemetto il Byron porta il massacro della storia a forma d’arte, per esempio con l’idea che Bonivard fosse stato imprigionato per la sua fede protestante. Falso: ecclesiastico Savoiardo, covò il suo risentimento contro il Duca di Savoia perché gli era stato negato il vescovato di Pinerolo ed altri benefici ecclesiastici e poi lottò contro il Duca di Savoia per l’indipendenza di Ginevra, non per la religione. Difatti Carlo III di Savoia aveva già messo una volta in prigione Bonivard nel 1519, prima ancora che Lutero fosse scomunicato, e Ginevra espulse il vescovo cattolico non prima del 1532. Non ho neppur trovato alcun fondamento alla commovente nozione che il padre di Bonivard fosse morto sul rogo. E i sei fratelli, di cui due imprigionati con lui e morti un po’ come i danteschi “Anselmuccio mio” e Gaddo? Mah! Il resoconto della cattura di Bonivard, che avvenne a scopo di rapina e non fu ordinata dal Duca di Savoia, esiste ed è chiaro che nessun fratello era presente. Però i fittizi fratelli erano utili per commuovere il lettore, sulle tracce del Conte Ugolino. Questi sentimenti sprecati, che i romantici si dilettano ad eccitare, e che fanno fremere e lacrimare a vuoto generazioni di lettori e di turisti sono quello che più mi rende sgradevoli i poeti di questa corrente. Ne sorgono domande interessanti: fino a che punto è lecito al poeta massacrare la storia per creare emozioni a vuoto? E come può trovare sinceri accenti di poesia un poeta che sa di raccontare frottole?
(“The Prisoner of Chillon”, 1816, sonetto più poemetto di 392 versi).
Incidentalmente, “Bonivard” assai probabilmente si scrive con una sola “n”, diversamente da come lo scrivono Byron e molti altri. Non è neppure “de” Bon(n)ivard, mania moderna, soprattutto d’oltre Atlantico, per cui quasi tutti i Francesi diventano “de”, e quasi tutti i Tedeschi “von”.
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Primo dei giorni delle vacche, li Vaqueriou, giorni sfortunati costituiti dagli ultimi tre giorni di marzo e i primi quattro di aprile, da una leggenda provenzale. Ricordati come “Li jour negre de la Vaco – i neri giorni della vacca”, in “Mireio”, di Mistral, canto VII. Vedi 25 maggio.