Il gioco del Nim è un gioco a due in cui possono vincere sia l’uno che l’altro giocatore. Si possono estrarre a sorte la posizione di partenza e chi incomincia per primo. A questo punto, se i due giocatori conoscono entrambi le regole, si può già sapere chi vincerà, e i due possono fare a meno di giocare. Ma, come vedremo, non sempre chi gioca per primo vince. Tuttavia, non è di questo che voglio scrivere ora. La mia storia con Nim risale agli anni Settanta, quando lavoravo a Bologna. Allora non si era ancora perso il ricordo del film “L’anno scorso a Marienbad”, che a suo tempo aveva creato un certo scalpore. Si trattava di un film franco-italiano, che ebbe subito un Leone d’Oro al festival di Venezia. Questa notizia mi terrorizzò e mi fece subito decidere che io, quel film non lo avrei visto. Al leon d’oro si aggiunsero le voci dei critici, per lo più favorevoli, dense di sperticate lodi di certe qualità del film che non sapevo neppure che cosa significassero. Il film era in bianco e nero, e si parlava anche di scene osé (per quei tempi) che spinsero un certo pubblico a vederlo. I malcapitati poi cercavano presto tutti i modi di evadere dalla sala di proiezione senza dare nell’occhio e perdere prestigio: si parlava di alcuni che avevano prezzolato il venditore di noccioline e Coca Cola per uno scambio di vestiti, ed altri che erano saltati dalle finestre del bagno del cinema. Quello però che interessava il mio amico Henry (che da molti anni non c’è più) era il fatto che nel film ricorrevano parecchie scene, tra cui quella di due individui (sempre gli stessi) che giocavano a Nim. Uno vinceva sempre e l’altro perdeva sempre. “Evidentemente uno sapeva come si gioca e l’altro no”, dichiarò Henry, “perché esiste una ben precisa teoria matematica del gioco che dice chi vince e chi perde, e sia l’uno che l’altro hanno più o meno eguali probabilità di vincere, se le condizioni iniziali sono stabilite a caso”. Henry conosceva i dettami provenienti della teoria matematica e, una volta insegnatomi il gioco, mi batté regolarmente. Perdere sempre diverte poco, ma anche vincere, e presto decidemmo di non giocare più. Non seppi mai se Henry conoscesse solo le conclusioni (che richiedevano ad ogni mossa certe somme in notazione binaria) o se effettivamente possedesse la teoria per dedurre quelle conclusioni. Sia chiaro che Henry, molto superiore a me in matematica e fisica (veniva dall’Università Carnegie-Mellon), avrebbe impiegato un pomeriggio o forse meno per comprendere la teoria del gioco: soltanto, aveva altro da fare. Ma intanto mi era entrato il sassolino nella scarpa. Non era un sassolino particolarmente doloroso, e me lo tenni senza danni fino ad oggi. Ma mi pare venuto il momento di togliermelo, non senza un pensiero per il mio amico Henry Horstman, uno dei pochissimi che formarono la mia esistenza e resero la mia vita interessante e gradevole. Che riposi in pace.
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