Molti anni fa lessi un libretto o lungo racconto, intitolato “Gli alpinisti ciabattoni”(1887), di Achille Giovanni Cagna (1847-1934). Lo lessi perché il Dizionario Letterario Bompiani ne dava una buona recensione, sullo sfondo del poco popolato paesaggio del romanzo italiano di fine Ottocento: “… così che, nel racconto umorismo e sentimento garbatamente si fondono, rispecchiando l’etica semplice e pratica, l’umanità retta, dignitosa e pietosa, caratteristiche del periodo letterario a cui appartiene l’autore”. Tutto vero, ma con una macchia. Ad un certo punto, un povero cane appartenente a un’ancor più povera montanara, viene ucciso per pura scempiaggine, e non se ne parla più. A me questo cane fece pena, e anche l’amico Sardonicus, che lesse il libro recentemente, provò lo stesso sentimento, e me lo disse. Non so se questo succeda anche ad altri (a me succede spesso), ma io sentii il bisogno di completare per uso mio personale il racconto con una nota ottimistica nella natura umana. Il cane non lo potevo resuscitare, e perciò feci quello che potei. Ma almeno adesso dormo tranquillo.
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